Le sorti degli Atenei Italiani: decreto AVA

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    Le sorti degli Atenei Italiani: decreto AVA
    di Edoardo Raimondi, 08 Aprile 2013

    Una delle ultime mosse del Ministro Profumo è stata quella di permettere
    l'emanazione del decreto 47, decreto che va a legiferare su Autovalutazione,
    Valutazione, Accreditamento dei corsi di laurea dei diversi Atenei italiani.
    Se si va ad analizzare tali misure legislative, si capisce come si
    continuino a proseguire politiche finalizzate a destrutturare il sistema
    universitario pubblico: cerchiamo di capire il perché.

    In primo luogo è necessario chiarire che il decreto così detto Ava, in
    primis, si va ad occupare degli accreditamenti iniziali dei corsi di studio,
    cioè va a determinare i requisiti necessari per permettere l'esistenza di
    corsi universitari. È ovvio che oltre a requisiti di trasparenza,
    assicurazione di qualità dei corsi stessi ci siano quelli relativi alla
    sostenibilità della didattica, per l'appunto requisiti che indicano il
    numero minimo di docenti che il corso stesso deve riuscire a garantire se
    vuole rimanere in vita.
    Successivamente a questa prima parte, si passa a quello che è definito
    accreditamento periodico, cioè la verifica, con un cadenza temporale
    determinata per i corsi di studio, della persistenza dei requisiti stabiliti
    nell'accreditamento iniziale. Ovviamente esistono, di conseguenza, diverse
    gradazioni di giudizio, rispetto all'aderenza ai singoli requisiti, che il
    ministero potrà attribuire ai diversi corsi universitari, dunque,
    indirettamente a tutto il singolo Ateneo. Ma è interessante andare a dare
    un'occhiata a quali sono i requisiti periodici che sono stati fissati
    rispetto al numero richiesto di docenti per poter sostenere la didattica, i
    così detti requisiti di docenza: si nota subito una progressività dei numeri
    richiesti, partendo dall'anno accademico 2013-14: in sostanza, per l'anno
    2016-17 ogni corso di studio dovrà garantire, minimo, 12 docenti di cui
    almeno 4 professori, almeno 9 docenti appartenenti a ssd di base o
    caratterizzanti, massimo 3 docenti appartenenti a settori affini. Anche il
    DM 17 prevedeva un numero minimo di 12 docenti, ma non specificava il numero
    per specifiche categorie di docenza; se precedentemente, dunque, un corso di
    laurea poteva quantomeno esistere con i relativi requisiti minimi generali,
    ora si richiedono requisiti di docenza ancora più stringenti.

    Proprio così. Nessuno avrebbe mai creduto che si  potesse fare peggio.
    Ebbene, il governo Monti ci è riuscito. Se da un lato il decreto 47
    irrigidisce i criteri di sostenibilità didattica e di possibilità di
    mantenimento o apertura (meravigliosa utopia) di nuovi corsi di laurea,
    dall'altro il blocco del turn over per nuove assunzioni, stabilito dal
    governo Berlusconi, stringe così il sistema della formazione pubblica in una
    morsa fatale. L'assurda conseguenza di questo disegno di legge, ricordiamo
    già emanato il 30 gennaio, pretende di restringere i criteri di docenza in
    tal senso, quando al tempo stesso non c'è la possibilità di assumere nuovi
    ricercatori, professori e tutte quelle categorie che dovrebbero essere in
    grado di permettere l'esistenza delle Università pubbliche, allo stato
    attuale delle cose, considerando anche l'aumento esponenziale dei
    pensionamenti del personale docente. In tale situazione, è chiaro che molti
    corsi di laurea dovranno chiudere oppure saranno costretti a trovare
    politiche di estrema razionalizzazione dell'offerta didattica, in base a
    quei docenti che rimarranno a disposizione dei dipartimenti.

    È ovvio che privilegiati saranno quei corsi, in specifiche Università, che
    riusciranno a non morire: e a che cosa porterebbero tali scelte obbligate?
    Molto probabilmente ad una progressiva specializzazione degli Atenei stessi,
    i quali, per non scomparire, dovranno sempre più puntare su quei
    dipartimenti storicamente più ‘ricchi' di docenza. Ed è così che il modello
    dell'Università generalista, multiculturale e aperto alla formulazione di
    laboratori scientifici sempre più variegati e innovativi andrà letteralmente
    in fumo, qualora il decreto non cambierà.

    Ma andiamo avanti nella lettura di questo ben congeniato provvedimento. Per
    prima cosa si raggruppano in delle aree, più o meno vaste, tutti i vari
    corsi di laurea, con le relative classi di appartenenza e le relative
    denominazioni. Per ogni gruppo, dunque, si prevede una numerosità massima di
    immatricolazioni rispetto alla capacità di sostenibilità didattica di ogni
    area. Anche il DM 17 prevedeva una tale impostazione, e di fatti, sanciva
    che qualora il numero di immatricolati fosse raddoppiato rispetto al numero
    massimo stabilito sarebbe stato necessario un incremento del 75 per cento di
    docenti disponibili, percentuale che viene fuori dal rapporto immatricolati
    e numerosità massima. E anche qui Profumo è riuscito a dare il meglio di sé.
    Infatti, il DM 47 prevede che, con un raddoppio delle immatricolazioni
    rispetto ai parametri stabiliti, la docenza dovrà aumentare del 100 per
    cento. Motivo ulteriore per sbizzarrirsi, purtroppo, con numeri chiusi o
    numeri programmati per limitare le iscrizioni; sarebbe interessante
    rivedere, giusto così, per un attimo, cosa intendevano i nostri tecnici per
    merito e studenti meritevoli.  Ed ancora, il settore scientifico
    disciplinare di afferenza di ogni docente dovrà essere lo stesso
    dell'attività didattica di cui il docente stesso è responsabile; è chiaro
    che questo comporterà non pochi problemi nella gestione della didattica in
    un quadro del genere, poiché precedentemente un docente poteva coprire anche
    corsi che afferivano a settori scientifico disciplinari simili fra loro.

    Arriviamo così ad un'altra voce, quella che fissa i requisiti per poter
    attivare nuovi corsi di studio, in base alle spese del personale. Un
    provvedimento che suona come una grande presa in giro. Il decreto prevede,
    rispetto a ciò, che se le spese di personale superassero l'82 per cento
    delle entrate (compresa la contribuzione studentesca) non si potrebbero
    attivare nuovi corsi di studio. In caso contrario, si dovrà dimostrare la
    sostenibilità della didattica in base ai docenti a regime che si avrebbero a
    disposizione oppure non aumentando il numero complessivo di corsi attivati.
    È ovvio che la possibilità di erogare didattica si lega alla contribuzione
    studentesca: aumentare le entrare attraverso la contribuzione diventa
    l'unico modo per non sforare con le spese di personale. Ma a questo ci aveva
    già pensato un altro decreto, sempre ideato dal Ministro Profumo, il DM 49.

    È necessario svolgere un'ultima considerazione sulla valutazione periodica,
    che si va ad occupare della valutazione in termini di qualità, sostenibilità
    economica e di risultati conseguiti del singolo Ateneo nel suo complesso. Un
    parametro salta all'occhio e cioè quello che valuta in base al rapporto
    fatturato conto terzi e progetti di ricerca vinti in bandi competitivi negli
    ultimi 10 anni. È palese come tale parametro, qualora dovrà costituire un
    criterio premiale, vada in pieno soccorso dei Politecnici e delle Università
    specializzate in determinati singoli settori.

    Questo è quello che ci consegna il Ministro Profumo a fine legislatura. Un
    massacro del sistema universitario, rispetto ai criteri per determinare
    l'erogazione e lo sviluppo della didattica che si produce in questo paese,
    rispetto alle condizioni di lavoro e alle possibilità di ricerca dei docenti
    universitari, rispetto al modello multiculturale e generalista dell'
    università italiana; ma soprattutto riguardo alla possibilità di esistenza
    stessa delle università pubbliche. Urge un cambiamento, come richiesto a
    gran voce da molte organizzazioni universitarie in questi mesi, anche in
    merito a quest'ultimo decreto. Tuttavia, il silenzio mediatico e politico,
    rispetto a queste vicende, continua a essere sempre più inquietante.

    Edoardo Raimondi
    Nato agli albori dei ruggenti anni '90 a Chieti, in Abruzzo, studia
    all'Università di Pisa, dove ha conseguito la laurea triennale in filosofia
    con una tesi su Hegel e l'idealismo tedesco. Da sempre interessato alla
    politica, scrive dell'attualità universitaria di Pisa.

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